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Azione cofinanziata dalla Commissione Europea
Il presente progetto è finanziato con il sostegno della Commissione europea. L'autore è il solo responsabile di questa pubblicazione (comunicazione) e la Commissione declina ogni responsabilità sull'uso che potrà essere fatto delle informazioni in essa contenute.

Territori

24/04/2015

Mai come oggi, grazie ad EXPO 2015, si parla di cibo, crescita sostenibile,  risorse idriche, consumo del suolo e viene sempre più spesso richiamato il concetto di “water footprint” a proposito dei prodotti agricoli destinati alla alimentazione umana.
Proprio in EXPO si possono leggere, in più padiglioni, i dati sul consumo d’acqua relativo a diverse colture, compreso il riso, che sfama la metà della popolazione mondiale e che rappresenta la coltura più strettamente connessa all’acqua, sia che lo si coltivi in Italia, Francia, Egitto od Estremo Oriente; ma è proprio nel nostro Paese, dove questa millenaria coltura rappresenta un “unicum” assolutamente straordinario per il legame tra le risorse idriche impiegate ed il territorio, che tale impostazione evidenzia i suoi limiti.
È essenziale superare certi schemi convenzionali e “contestualizzare” il consumo di risorsa idrica per la risicoltura padana, al fine di comprenderne la reale entità, gli effetti sull’ambiente e sul paesaggio nonché, più in generale, il ruolo nell’ambito dell’impiego delle risorse idriche lungo l’intera asta fluviale del Po.
Il territorio agricolo padano, corrispondente ai “comprensori di antica tradizione irrigua” compresi tra la Dora Baltea (a ovest), il Po (a sud), il Lambro e l’Adda (a est), le propaggini collinari delle Prealpi (a nord), interessa complessivamente una superficie territoriale di diverse centinaia di migliaia di ettari in Piemonte ed in Lombardia, dove si concentra il 95 % della produzione risicola nazionale.
In tale vasto territorio agricolo, la risicoltura rappresenta, insieme al mais, la coltivazione più diffusa, consolidata attraverso la graduale estensione delle superfici investite a risaia e che dura da oltre 5 secoli; questo processo accompagnato dallo sviluppo di una vastissima rete di canali di irrigazione e dal reperimento di nuove disponibilità idriche. 
L’agricoltura, quindi, ha dato l’impulso maggiore alla realizzazione delle grandi opere idrauliche infrastrutturali, caratterizzanti il XIX secolo: il Canale Cavour (1866) in Piemonte ed il Canale Villoresi (1890) in Lombardia. 
Nel secolo successivo, il disegno si è completato con la realizzazione dello sbarramento della Miorina, la possibilità di regolare le riserve idriche del Lago Maggiore, il completamento del Canale Regina Elena (1954).
Tali nuove infrastrutture sono state nei decenni successivi integrate con gli altri canali risalenti ai secoli precedenti: la Roggia Mora, i Navigli Langosco e Sforzesco, il Naviglio Grande, il Naviglio Pavese, il Naviglio di Bereguardo, il Naviglio Martesana. Detta integrazione è avvenuta a volte fisicamente, realizzando canali di collegamento, ma più spesso con innovazioni organizzative, introducendo regole di riparto delle disponibilità idriche o accorpando le gestioni di reti idriche.
Questo lungo processo di integrazione si è realizzato grazie a fattori e caratteristiche peculiari, che non si riscontrano tutte insieme in altre aree della pianura padana, quali la disponibilità di risorsa idrica dei ghiacciai e nevai alpini, nonchè la particolare conformazione geomorfologica dei terreni, che consente una stretta interazione tra la circolazione delle acque superficiali e di quelle sotterranee.
Tutto questo ha consentito all’uomo di plasmare il territorio e l’ambiente, fino a renderlo quello, che oggi conosciamo: un esempio di territorio antropizzato, con un ecosistema complesso e variegato, caratterizzato da una grande biodiversità; basta pensare alla rete consortile di corsi d’acqua superficiali (a partire dai grandi canali principali e dai fontanili) ed alla rete distributiva e di raccolta delle acque piovane (lo sviluppo complessivo di detta rete assomma ad alcune decine di migliaia di chilometri): un enorme habitat per tante forme animali e vegetali.
A conferma delle valenze ambientali indotte dalle risaie e dalla circolazione idrica connessa, si deve osservare che, nel tratto di fiume Po che scorre tra la confluenza della Dora Baltea e quella del Tanaro, le aree di maggior pregio naturalistico (zone umide, garzaie, ecc.) si trovano lungo la sponda sinistra del fiume e pertanto proprio a ridosso delle aree risicole, dalle quali traggono alimentazione non solo dal punto di vista idraulico: infatti, gli ardeidi (aironi cenerini, aironi rossi, aironi guardabuoi, garzette, nitticore, ecc.), ivi nidificanti, trovano cibo nelle risaie, che rappresentano così una delle maggiori zone umide artificiali d’Europa.
Tutto il territorio risicolo e le connesse fonti di approvvigionamento idrico rientrano nella competenza di quattro grandi Consorzi di bonifica e di irrigazione (elencati nella sequenza da ovest a est, come la corrente del Po!): a Vercelli, l’Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia ed il Consorzio di Bonifica della Baraggia Biellese e Vercellese (operanti nelle province di Torino, Biella, Vercelli e Alessandria), a Novara, l’Associazione Irrigazione Est Sesia (operante nelle province di Novara, Vercelli e Pavia), a Milano, il Consorzio di Bonifica Est Ticino Villoresi (operante nelle province di Milano, Lodi, Monza e Brianza, Pavia, Varese, Como, Lecco). Le risorse idriche utilizzate provengono da diverse fonti di approvvigionamento: i fiumi Po, Dora Baltea, Sesia, Ticino (utilizza le acque regolate del Lago Maggiore), Adda ed i bacini di invaso consorziali. 
Le acque interne ai comprensori non vanno quindi considerate come fonti di approvvigionamento a se stanti, bensì sono recuperi di acque già utilizzate. Le acque dei fontanili, delle risorgive e le “colature drenate” nei corsi d’acqua costituiscono utilizzi di risorse idriche già impiegate per la sommersione delle risaie “di monte”. Si evidenzia così il riutilizzo plurimo delle acque, che consentono la sommersione ed il mantenimento delle risaie prima di essere restituite ai fiumi, da cui erano state prelevate e, in definitiva, al Po.
Se è abbastanza conosciuta l’importanza della risaia quale ecosistema complesso e variegato, meno nota è la capacità del sistema risaie-canali di utilizzare al meglio la risorsa idrica, alimentandosi così l’errata convinzione che il riso sia una coltura “esageratamente idroesigente”.
Va anche detto che le risorse idriche, utilizzate in risicoltura, non sono in concorrenza e quindi non vengono sottratte ad altri usi (idroelettrico, idropotabile, industriale…); infatti, considerando gli utilizzi della risorsa idrica in termini di flusso e non di volumi destinati a ciascun uso, la visione cambia nettamente.
I bacini idroelettrici rappresentano, infatti, i primi grandi utilizzatori della risorsa idrica del bacino padano, mentre le derivazioni irrigue a servizio della risicoltura, poste a valle dei grandi sistemi di invasi e centrali, non ne influenzano il funzionamento, mentre ne risultano fortemente condizionate.
Le medesime acque, dopo aver prodotto consistenti quantitativi di energia idroelettrica, perdendo semplicemente quota ed energia potenziale, diventano disponibili per qualsiasi altro uso. 
Inoltre, la necessità di procedere alla sommersione delle risaie indicativamente nei mesi di aprile e maggio, consente di utilizzare acque mediamente abbondanti, grazie alle precipitazioni primaverili e allo scioglimento delle nevi a quote basse, altrimenti destinate a defluire in Adriatico senza beneficio alcuno. 
Il meccanismo di funzionamento del sistema è facilmente schematizzabile: le acque prelevate dai fiumi sono destinate, attraverso la rete dei canali, ad un primo utilizzo per la sommersione di una fascia di terreni a risaia; immediatamente dopo, le medesime portate sommergono altre porzioni di territorio e, nel contempo, si attiva il recupero ed il successivo riutilizzo sia delle cosiddette “colature superficiali”, sia delle acque percolate in falda, consentendo così il riuso delle medesime acque.
Senza avere la pretesa di fornire dati scientificamente provati, è tuttavia utile dare qualche numero a supporto di quanto finora delineato.
Considerando il bilancio idrico effettuato per una singola azienda risicola o a livello di “camperia”, si rilevano consumi medi nell’ordine di 2,5 litri/secondo per ettaro, mentre stime a livello comprensoriale indicano un consumo di circa 1 litro/secondo per ettaro. La sensibile differenza è spiegabile solo con il riutilizzo sia delle cosiddette “colature superficiali”, sia delle acque percolate in falda, che vengono riprese dalla rete di fontanili e canali drenanti.
Non è quindi possibile, nè tantomeno corretto, valutare l’impiego delle risorse idriche in risicoltura sulla base dei volumi impiegati a livello di singola “camera di risaia” o di azienda agricola, tentando magari un’estrapolazione a scala maggiore per ottenere dati con validità comprensoriale. Un approccio veritiero non può che basarsi sulla valutazione dei flussi idrici, impiegati durante l’intera stagione su un vasto comprensorio o, ancor meglio, a livello di macro comprensorio risicolo.
Nessuna altra coltura è in grado di garantire tali “performances” a livello di comprensorio irriguo, tenendo presente che alla risaia basta un “filo d’acqua” per assicurare la riuscita del raccolto.
Occorre a questo punto evidenziare un altro vero “punto di forza” della risicoltura padana: la funzione di accumulo di acqua nella falda freatica operata dal sistema risaie - canali. Infatti nei territori risicoli, l’altezza della falda freatica subisce, tra l’inizio della sommersione ed il suo completamento, variazioni sostanziali, che vanno da alcune decine di centimetri ad oltre 1 metro e nei casi più significativi anche ad oltre 2 metri. Detti incrementi evidenziano come gli strati di terreno al di sotto delle risaie sommerse rappresentino un gigantesco bacino di accumulo di risorsa idrica: in termini molto elementari, la sommersione della risaia si traduce nell’ “imbibire” il sottosuolo come se fosse una enorme “spugna”. I rilevanti volumi d’acqua accumulati vengono poi restituiti ai fiumi  “in differita” e molto lentamente, come riscontrabile dall’analisi dei dati ufficiali, rilevati dal sistema di monitoraggio idrologico delle Regioni Piemonte, Lombardia e di AIPO.
Tale fenomeno si traduce nella mitigazione degli effetti delle magre, che si generano normalmente nei mesi più caldi e con precipitazioni scarse (giugno, luglio e parte di agosto) lungo tutto il corso del fiume Po. Gli effetti benefici di tali “restituzioni” si registrano sia a vantaggio degli ecosistemi fluviali, che possono così beneficiare di portate assai più abbondanti del Deflusso Minimo Vitale (DMV), sia a vantaggio dei prelievi irrigui di valle; non va trascurato anche l’effetto di efficace contrasto alla risalita del cuneo salino nel tratto di Po prossimo al delta.
Pertanto, la costanza del flusso idrico consentito dall’ “alimentazione in cascata” delle risaie e che si fonda sul metodo tradizionale della sommersione permanente, rappresenta il sistema, che rende massima la superficie di terreno coltivato a risaia, con il minor quantitativo d’acqua possibile.
Guardando al futuro, le maggiori preoccupazioni, che gravano sulle risorse idriche impiegate in risicoltura, sono costituite dall’introduzione di alcune norme legislative nazionali e regionali in materia ambientale.
È indubbio che gli ecosistemi fluviali vadano salvaguardati con l’imposizione del rilascio del cosiddetto DEFLUSSO MINIMO VITALE (DMV). Tuttavia i provvedimenti applicativi a carico delle derivazioni irrigue dovrebbero tenere conto del “sistema risaia” (avviene almeno parzialmente in Piemonte), della sua capacità di “restituzione” delle acque e delle sue ormai riconosciute peculiarità paesaggistiche e naturalistiche. Una applicazione “tout court” delle norme rischia di imporre rilasci a favore di tronchi fluviali di scarso interesse ambientale o dove, nell’arco di pochissimi chilometri, i “recuperi” dalle risaie circostanti assicurano già una situazione ambientale ottimale. Bisogna anche considerare che la naturalità dei fiumi risulta oggi essere compromessa dalla gestione dei grandi bacini di invaso a scopo idroelettrico, con il rischio palese di far ricadere gli oneri di tale recupero di naturalità solo sulle derivazioni irrigue di pianura.
Infine non si può non accennare ai mutamenti climatici in atto ed ai loro ben difficilmente prevedibili effetti sulle risorse idriche. È indubbio che la scelta politica di realizzare nuovi invasi ad uso plurimo rappresenterebbe un mezzo per contrastare gli effetti dei mutamenti, recando beneficio all’intera collettività, ma sono ben note le forti opposizioni a tale scelta.
Resta però una significativa e rilevante possibilità di incremento delle capacità di accumulo a “costo zero”: il Lago Maggiore. Esso rappresenta, per Piemonte e Lombardia, il più rilevante accumulo di risorsa idrica disponibile: attualmente è in grado di immagazzinare 200 milioni di metri cubi destinati ad usi usi diversi (irrigazione, produzione di energia idroelettrica, usi ambientali).
La possibilità di innalzare il livello di regolazione estiva a m. 1,5  sopra lo “zero idrometrico di Sesto Calende” permetterebbe un incremento di circa 50 milioni di metri cubi di acqua accumulata; il tutto a beneficio dell’agricoltura e dell’ambiente di circa 500 comuni e per circa 450 mila ettari di territorio, dove va scongiurata ogni modifica degli attuali equilibri idrici, che rappresentano la vera forza dei territori risicoli e del loro paesaggio.

Roberto Isola, Direttore ANBI PIemonte


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